Neil LaBute, una delle voci più interessanti della nuova drammaturgia
americana, ha una predilezione per le commedie brevi: “Una commedia breve è una
stronza bastarda ed è davvero difficile da addomesticare. Come le pubblicità o
i video musicali o i racconti brevi è una cosa molto più complicata di quello
che sembra”.
Nonostante questo, con la stessa tempra dello scalatore che torna a
cimentarsi con le vette più dure, LaBute scrive spesso atti brevi per il
teatro. L'essenzialità e il rigore che sottende alla scrittura di questi brevi
episodi teatrali costringe l’autore, secondo LaBute, ad essere disciplinato, a
soppesare ogni parola, poiché, nella brevità del suo svolgimento, bisogna che
ogni cosa veicoli e sintetizzi un significato preciso.
I due atti unici del 2007, Land of
the Dead e Helkter Skelter, da
noi riuniti in un unico spettacolo ribattezzato Disorder, non sono stati pensati dall’autore come parte di un’unica
pièce, ma la presenza comune dell’elemento della gravidanza ne suggerisce
l’accoppiata.
Nel primo, Land Of the Dead, due
coniugi raccontano ad un interlocutore invisibile dell’aborto di lei. I
monologhi di marito e moglie, rivolti verso la platea, rompono, come
d'abitudine di LaBute, l'immaginario parete che separa gli attori dal loro
pubblico, per chiamare direttamente in causa gli spettatori. Più che in una
sala teatrale, abbiamo la sensazione di trovarci davanti a due uomini come noi
che devono affrontare un problema: una gravidanza voluta/non voluta. L’uomo e
la donna, presenti/assenti in scena, vivono il proprio racconto - che ha la
forma ibrida tra prosa letteraria e teatro tipica del Literary Drama - in un crescendo di tensione da thriller
psicologico.
Helter
Skelter, il secondo atto unico, ha
una struttura più classica. È, per dirla con le parole del drammaturgo, “un
urlo primordiale”: LaBute trasforma infatti un innocuo incontro tra marito e
moglie in un ristorante durante lo shopping natalizio in una tragedia ispirata
per toni e crudezza a quelle dell’antica Grecia. L’infedeltà di lui scatenerà
la furia della moglie in cinta che, non volendo limitarsi ad un civile atto di
separazione, compirà un atto estremo davanti agli occhi terrorizzati del
coniuge.
Entrambi i testi sono affidati, attraverso l’utilizzo
di una regia in-visibile, all’interpretazione dei due attori: nel primo la
rappresentazione della presenza/assenza in scena e l'abbattimento della quarta
parete coinvolgono in una tensione condivisa gli interpreti e il pubblico,
consentendo agli attori sulla scena di lasciarsi andare al loro crescendo
emotivo; nel secondo, la relazione scenica più diretta suggerita dal dialogo
tra gli attori veicola i temi euripidei del tradimento e della vendetta,
convocando il pubblico a osservare, come testimone, le drammatiche
contraddizioni nascoste sotto la coltre della normalità.
di Neil LaBute
traduzione di Marcello Cotugno e Gianluca Ficca
con
Benedicta Boccoli, Claudio Botosso
regia, spazio scenico, luci e colonna sonora
Marcello
Cotugno
aiuto regia Arianna Cremona
una produzione Teatro Lo Spazio
Il
tema dell’essere “carini”, esteticamente gradevoli e socialmente omologati, è
centrale in Fat Pig, (da cui è tratta la nostra versione
siciliana del testo originale), come
in altri due testi dell’autore americano: La
forma delle cose e Reasons to be
Pretty, a formare quella che lui stesso definisce “Trilogia della bellezza”: L’idea
di trasportarla in Sicilia nasce dalla mia collaborazione con Paolo e Federica,
attori con cui condivido un’idea di teatro vivo, calato nella realtà e nel divenire
del nostro tempo. Come è stato messo in risalto da Thomas Bell, professore
universitario di geografia urbana, nel saggio Neil LaBute A Casebook, è
lo stesso LaBute a suggerirci che i suoi testi, non avendo quasi mai una reale
collocazione geografica, sono scritti per poter adattarsi ad ambientazioni
differenti.
D’altra
parte, Fat Pig è anche un testo sul concetto di diversità. E, nel
meridione d’Italia, l’inclusività e l’accoglienza nei confronti di chi, in un
modo o nell’altro, diverge dalla norma – o dal cliché – non possono, ancora
oggi, darsi per scontati. Il meridione, e la Sicilia in particolare, ha inoltre
una fortissima cultura del cibo, spesso visto come un collante sociale. Ma il
cibo è anche rifugio, valvola di sfogo, e rimedio contro l’insoddisfazione di
cui un individuo emarginato è facile preda: marginalità e censura sociale nei
confronti del “diverso”, possono dunque, a queste latitudini più che altrove,
innescare un circolo vizioso che conduce all’esclusione.
Il
testo, dedicato da LaBute a David Mamet, suo idolo in gioventù, racconta la
storia di Tommaso, un milanese trapiantato in Sicilia, che si invaghisce di Elena,
una bibliotecaria gentile, simpatica e dai molti talenti, apparentemente
perfetta per lui se non per il fatto di essere una “taglia molto forte”.
Le
chiacchiere e le ironie sulla grassezza di lei da parte degli amici saranno per
Tommaso il principale ostacolo al rapporto. L’aspetto fisico, infatti, non deve
deludere i gusti dell’ambiente sociale a cui apparteniamo: molti tra i
personaggi di LaBute finiscono quindi col permettere al giudizio degli altri di
dominare le proprie vite e di determinare le proprie scelte, anche a costo di
rinunciare alla felicità in nome del pensiero comune.
Ma
mentre Tommaso è vittima suo malgrado di questa dittatura della bellezza, Elena,
la protagonista/eroina di La pacchiona, sembra essere a suo agio nonostante il mondo esterno cerchi di escluderla. Lei,
d’altra parte, ormai così abituata a non essere vista, abita il suo "mondo parallelo”. Il suo
appartamento, il suo rifugio sicuro, in cui le fanno compagnia i personaggi e
le scene dei vecchi spaghetti western (nell’originale film di guerra),
solitamente parte di un immaginario prettamente maschile.
Lo
spettacolo segue lo stile del teatro da camera, citando l’Intima Teatern di
August Strindberg e puntando i suoi atout sulla recitazione relazionale e sulla credibilità dei personaggi. Abbattere la
divisione palco/platea sfruttando lo spazio in modo da coinvolgere lo
spettatore nell’azione mi sembra la soluzione più adatta a una pièce che
racchiude in sé una forte carica empatica e veicola una matrice sociale
fortemente allusiva al contemporaneo.
Il
progetto è anche per noi l’occasione di iniziare una collaborazione con il
Teatro Stabile di Catania e con la sua direttrice Laura Sicignano, attenta alle
istanze del contemporaneo e al coinvolgimento del territorio. Lo spettacolo,
infatti, debutterà al suggestivo Castello Ursini nell’estate 2020 e prevederà
un percorso laboratoriale aperto ad attori e attrici siciliani per scegliere il
resto del cast.
Come
nella tradizione postmoderna, sarà il pubblico a dover trovare le risposte alle
azioni degli attori in scena e, una volta tornato a casa, a rivolgere lo
sguardo su sé stesso. È questa l’amara catarsi di LaBute: offrirci un’occasione
per guardare a ritroso le nostre vite, per rifare il doloroso conteggio di
tutto quello che ci è stato dato e tolto, di tutto quello che noi abbiamo
lasciato andare, e di tutto quello che gli altri ci hanno fatto credere. Un
inventario crudele, di una vita forse solo apparentemente felice, che in realtà
è stata una continua guerra piena di sconfitte e con pochissime vittorie sul
campo. Almeno fin qui.
di Neil LaBute
traduzione di Marcello Cotugno e Gianluca Ficca
con
Paolo Mazzarelli, Federica Carruba Toscano, Chiara Gambino, Alessandro Lui
regia colonna sonora Marcello
Cotugno
scene e costumi Luigi Ferrigno, Sara Palmieri
luic Gaetano La Mela
aiuto regia Martina Gelnda
una produzione Teatro Stabile di Catania
Carol e
Martin tornano a casa dopo aver trascorso sei anni lavorando nello staff di
Medici senza frontiere in un paese africano non ben definito. Al loro ritorno,
vengono invitati a cena dai loro vecchi amici Liz e Frank. Le due coppie si
erano incontrate alla facoltà di medicina ma da lì in poi le loro vite avevano
preso percorsi estremamente differenti. Mentre Carol e Martin hanno scelto di
prestare assistenza medica in luoghi di estrema povertà, Liz e Frank hanno
invece esercitato la loro professione inseguendo obbiettivi più tradizionali:
la carriera, il guadagno, la costruzione di una famiglia. A legarli in questa
lunga distanza, la presenza di una bambina, Annie, che Liz e Frank hanno
adottato a distanza, e di cui Martin e Carol si sono presi cura durante la loro
permanenza in Africa.
Durante la cena, l’alcool inizia a scorrere e
fa emergere incomprensioni e gelosie reciproche tra le due coppie. Protagoniste
inerti dell’azione diventano inaspettatamente due bambole. La prima, Peggy
Pickit (che dà nome all’ opera), è un costoso giocattolo di fabbricazione
occidentale destinato da Liz e Frank ad Annie, l’altra è una semplice bambola
artigianale di legno, portata in dono dall'Africa da Carol e Martin per Katie,
la figlia biologica dei loro amici.
Le due
bambole diventano il simbolo dell’enorme divario tra il capitalismo avanzato
del mondo occidentale e la povertà dei paesi in via di sviluppo. Un divario
incolmabile sottolineato anche dal racconto che Liz fa di una lettera che Katie
ha scritto per Annie, tentativo, forse impossibile, di gettare un ponte tra due
realtà troppo lontane. Attraverso i toni a volte ironici, a volte dolorosi di
questa commedia amara, il conflitto che anima azioni e relazioni in scena
diventa dunque metafora di un'inquietudine esistenziale tipica del contemporaneo.
Da un lato le due coppie rispondo al richiamo di un'affannosa ricerca di
identità e di ruolo nella società (come medici e come individui), richiamo a
cui forniscono risposte diametralmente opposte. Dall'altro, dietro a una
contrapposizione che potrebbe superficialmente leggersi come uno scontro
buoni/cattivi, emerge una riflessione più acuta e pessimista sul relativismo
dei valori, sul confine sottile tra bene e male, compassione e pietà e, non
ultimo, sul senso di colpa dell’Occidente e sul paternalismo assistenzialista
che permea il rapporto tra l'Europa e le ex colonie.
di Roland Schimmelpfennig
traduzione di Marcello Cotugno e Suzanne
Kubersky
con Valentina Acca, Valentina Curatoli,
Emanuele Valenti, Aldo Ottobrino
regia colonna sonora e luci Marcello
Cotugno
scene Sara Palmieri
costumi
Ilaria Barbato
aiuto regia Martina Gargiulo
assistente alla regia Chiarastella
Sorrentino
datore luci Mattia Santangelo
la foto della locandina è di Ludovica
Bastianini
una produzione TAN - Teatri Associati Napoli
e Primavera dei Teatri
con il contributo del Goëthe Institut
prima parte del progetto: Una Trilogia
Tedesca, a cura di
Marcello Cotugno, Valentina Acca, Valentina Curatoli
di Patrick Marber
adattamento di Andrej Longo
di Jane Birkin
di Pupi Avati
adattamento teatrale di Sergio Pierattini
di Pupi Avati
adattamento teatrale di Sergio Pierattini
regia Marcello Cotugno
con Gigio Alberti, Fulvio Pepe (Filippo Dini), Giovanni Esposito,
Valerio Santoro, Gennaro Di Biase
sene Luigi Ferrigno
costumi Alessandro Lai
luci Pasquale Mari
aiuto regia Beatrice Tomassetti
foto di scena: Michele De Punzio
produzione La Pirandelliana
grafica locandina: DER*LAB
di Eric Coble
Una donna anziana barricata in casa e un intruso che si in la dalla finestra. È così che inizia Un autunno di fuoco, commedia dolce e graffiante sui delicati e spesso esplosivi rapporti tra madri e figli. Ma Alessandra non è una vecchietta indifesa, bensì un’artista quasi ottantenne alla resa dei conti con la sua famiglia per stabilire dove trascorrerà i suoi ultimi anni di vita. Con un’arguzia inaspettata in una donna dall’aspetto così gentile, una passione vulcanica e una pila di bombe Molotov, Alessandra si chiude in casa minacciando di dar fuoco a tutto piuttosto che finire in una casa di riposo. E l’intruso è Chris, il più giovane dei tre gli: spetta a lui convincere Alessandra a lasciare la sua casa, mentre le prime bombe emotive iniziano a detonare.
di Eric Coble
Adattamento Marco Casazza
Regia Marcello Cotugno
Interpreti Milena Vukotic e Maximilian Nisi
scene Luigi Ferrigno
costumi Andrea Stanisci
luci Bruno Guastini
colonna sonora a cura di Marcello Cotugno
aiuto regista Martina Gargiulo
assistente scenografa Sara Palmieri
produzione Teatro La Contrada
Festival Borgio Verezzi
di Irene Alison
Le Olimpiadi del ’36, rimaste nella memoria collettiva per straordinari episodi come le quattro medaglie oro vinte (davanti agli occhi di un Hitler visibilmente contrariato) dall’afroamericano Jesse Owens, sono anche le prime dell’era mediatica (riprese e trasmesse quasi in diretta nei cinegiornali): una gigantesca operazione di seduzione, con la quale la maschera del regime incanta e inganna il mondo.Lavorare con un’attrice come Valentina Acca, capace di mutuare e remixare diversi stili teatrali, consente una grande libertà espressiva e dialettica: non molti attori riescono, infatti, a passare con tanta semplicità dal naturalismo all’astrazione, dal teatro lirico a quello brechtiano, assecondando senza limiti e barriere un percorso polimorfo e diacronico come quello di Leni, Il Trionfo della Bellezza. Il testo prevede infatti un’architettura non lineare di superfici narrative che si sovrappongono ricostruendo un’unica vicenda: quella di una donna simbolo dei chiaroscuri del Novecento, che approda al nuovo millennio portando con sé un enigma mai risolto. Anche le musiche, in questo progetto per voce sola, saranno di fondamentale apporto al tradursi di emozioni e immagini: dalle note evocative di Max Richter alle rivisitazioni weimariane di Brian Ferry e della sua Orchestra.per finire al minimalismo neoclassico di Philip Glass.
di Irene Alison
con Valentina Acca
regia di Marcello Cotugno
scenografia Sara Palmieri
aiuto regia Martina Gargiulo
una produzione Khora Teatro
Napoli Teatro Festival - SportOpera
di Claudio Fava
di Paolo De Vita e Mimmo Mancini
di e con Paolo De Vita e Mimmo Mancini
regia e drammaturgia Marcello Cotugno
scene Sara Palmieri
costumi Noemi Intino
luci Fabio Fornelli
aiuto regia Martina Gargiulo
colonna sonora a cura di Marcello Cotugno
voce fuori campo Francesco Mancini
consulenza storica Marino Pagano
Valentino Romano
di Marcello Cotugno e Irene Alison
testo e regia Marcello Cotugno
collaborazione alla drammaturgia Irene Alison
con Valentina Acca, Salvatore Cantalupo, Xhilda Lapardhaja, Serena Marziale
in video Alfonso Postiglione
scene Sara Palmieri
costumi Annalisa Ciaramella
luci Carmine Pierri
video Alessandro Papa
colonna sonora a cura di Marcello Cotugno
aiuto regia Beatrice Tomassetti
assistente alla regia Martina Gargiulo
direttore di scena Nicola Grimaudo
sarta Francesca Colica
foto di scena Marco Ghidelli
scene a cura della Cattedra di Scenografia – prof. Luigi Ferrigno dell’Accademia di Belle Arti Napoli
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
di Neil LaBute
di Neil LaBute
traduzione Gianluca Ficca e Marcello Cotugno
con Gabriele Russo, Laura Graziosi (Valentina Acca)
Bianca Nappi Roberta Spagnuolo Martina Galletta
in video Rachele Minelli
regia Marcello Cotugno
scene Luigi Ferrigno
costumi Anna Paola Brancia d'Apricen
produzione Fondazione Teatro di Napoli
di Pierre Notte
di Neil Labute
di Neil LaBute